mercoledì 12 febbraio 2014

Gap culturale

Piove.
È la prima cosa che senti quando la coscienza torna dopo i vagabondaggi notturni: dietro la finestra serrata, dietro la serranda abbassata, dietro la grata del balcone, dietro la zanzariera, piove. Iniziare la giornata imprecando non è la migliore delle soluzioni ma Roma è stata costruita progressivamente da qualcuno (più di uno) che credeva che a Roma non piovesse mai.
Quando a Roma piove, ad esempio, il 410 non passa. Alcuni autobus si liquefanno. In alcuni piove più che all'esterno. Inaffidabili i mezzi, i dotati di automobile si mettono alla guida: solo per scoprire che oh, a Roma non piove mai, con la pioggia non so guidare. Panico.
A Roma avremmo maggiore facilità con l'invasione di rane nel Tevere, o con le zanzare, sì, ci lamenteremmo un sacco ma in fin dei conti - o con le mosche; per la moria di bestiame che ci frega, non ce n'è di bestiame a Roma, la peste sarebbe persino più semplice della pioggia, le cavallette e le tenebre, come la scenografica trasformazione dei corsi d'acqua in sangue: insomma, basta che non piova.
(la grandine, ecco, forse la grandine ci manderebbe nello stesso panico)

Io attendo l'autobus come se il tempo non avesse più valore, ombrello in una mano e Flaubert nell'altra e ogni tanto alzo gli occhi, faccio solo questo gesto lieve, sono invisibile come l'aggiornamento-in-tempo-reale che, con la pioggia, non funziona. Intorno a me, l'inferno.
Deficienti.
(la manifestazione di superiorità superficiale aiuta a preservare la calma in situazioni di presunta calamità, anche ove la calamità non ci sia ma tutti stiano pensando di essere a Pompei nel 79 d.C.)

Arrivi dove devi arrivare avendo fatto i tre trasbordi. Fai quello che devi fare per diverse ore - mettiamo pure siano otto. Poi devi arrivare, mettiamo, da Nomentana a Trastevere.
Prendi il coraggio sotto braccio, l'ombrello nell'altro, Flaubert sempre complice e di sostegno contro tutti e t'incammini.

C'è una cosa.
Al di là che la calca negli autobus quando siamo tutti bagnaticci e con gli ombrelli sgocciolosi è fastidioso, è non-mi-toccare, ma insomma siamo tutti nella stessa guazza. Al di là di questo: i posti reclinabili sono reclinabili e non fissi perché quando c'è calca ti devi alzare.
TE DEVI ALZÀ.

Al romano, in quando percorritore del suolo di Roma, questo non è chiaro. Al parigino lo è.
Non è evidente che magari, c'è calca, tu sei seduto esattamente-sulla-porta e nessuno riesce a passarci, non è evidente che ARZETE. È un vuoto culturale che non riesco a comprendere. È intuibile a pelle. È una necessità, non si tratta di buona educazione, si tratta di considerare che costa ti sta accadendo attorno.

A questo punto, nasce il dilemma.
Glielo dico o non glielo dico?

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