domenica 15 dicembre 2013

Creature selvagge

Il sanatorio era incassato nella neve.
Circolarmente, il fitto bosco, meno fitto del silenzio; il cielo sopra la nostra piccola conca di valle. Ovunque si volesse andare, da lì, era in salita; parcheggio escluso, dove la neve lenta ha coperto la nostra macchina notte dopo notte, fino a farne una protuberanza rocciosa simile alle altre, attorno.
Era divertente essere in sanatorio perché mamma mi aveva raccontato che nel sanatorio ci andavano i bambini e i vecchi malati, o anche i soldati in tempo di guerra; in quello lì in particolare quelli che respiravano male, si sa, l'altezza, l'aria limpida, l'assenza di strade e di civilizzazione intorno favorivano una certa limpidezza tout court. Non si poteva chiedere perché stessimo andando in un vecchio sanatorio in disuso, colpa della caduta del Muro; non era chiaro se uno dei bimbi dell'amica di mamma era malato, perché sarebbe equivalso ad etichettarlo come un meno rispetto a noi due rimanenti. Non era chiaro per quale motivo potessimo andare in quel sanatorio, che si sapeva essere stato statale o almeno dei comunisti (nel senso: governo di Warszawa o di Mosk?), essere stato chiuso, con sporadiche aperture estive (ma solo due estati erano passate, questo significava apertura al 50% o 100%?), ma che d'inverno era inutile aprirlo, mancanza di personale, apparecchiature vecchie, poi chissà, magari c'era bisogno anche di cambiare tutti quei medici, alti gradi della proletarissima scala sociale rispetto ad una massa pagata metà in sigarette o distillato trasparente, forse c'era stato qualche impiccio losco, pensavo guardando la neve sfilare, infermiere e medici che facevano cose strane (ci avrei messo quasi un altro anno e mezzo a capire a cosa la mia testolina pensasse), bambini maltrattati, fantasmi, no fantasmi no, ma segreti ad ogni angolo nel vecchio sanatorio comunista. Che dai e dai non arrivava mai.
Finché, bianco su bianco, enormi stalattiti di ghiaccio, il palazzo dall'intonaco scrostato appare rintanato nella neve. Szklarska Poręba: qualcosa di vetro e l'abbattimento degli alberi, il verbo del taglialegna. In italiano credo che il taglialegna tagli; in polacco no, ha il suo verbo proprio, e da quel verbo viene poręba. Quindi il taglio di vetro, non nel senso di tagliare il vetro, e in polacco è femminile, molto più dolce, molto più doveroso: abbatto un albero per fare legna, sistemarla in ordine sotto la tettoia e avere di che alimentare il focolare attorno al quale ci sederemo tutti. Questo almeno quello che pensavo, dito premuto sul finestrino freddo ad indicare il sanatorio nascosto nella neve.
La neve non era fredda. L'aria era piena di cristalli taglienti, nella bocca, nel naso, giù per la gola, ma la neve non era fredda. Era altissima, da perdercisi dentro in cunicoli ritorti. Le mamme hanno provveduto a spalarne un po', un po' ogni mattina, che sforzo inutile.
La prima cosa è stata combattere quel silenzio insistente, come un vecchio che non vuole uscire dalla sua poltrona calda e rischia di dimenticare come si cammina. In tre contro uno è stato facile. Il silenzio non è indifferente al gioco, cede spazio, arretra, si lascia incrinare dalle grida del combattimento; folli di gioia, chissà che nel paese che da qualche parte sarà pure - poi ci hanno portati verso il paese. Lunga marcia estenuante, traino dello slittino (mio! costruito da mio nonno!) tra gli alberi silenziosi, a noi sarebbe bastato qualunque angolo di quella foresta ma no, bisognava arrancare fino all'umanità per trovarci su una collina che degradava nel più esterno dei piazzali da gioco dove tutti i bambini del paese buttavano le cartelle dopo scuola (scuola, puah, io non avevo l'età e ne ero fiera) e si accalcavano e si sovrapponevano nello scivolare sulla neve diventata ghiaccio nella compressione, grigia e giallastra e marrone con le pietre che già spuntavano nell'usura del tessuto, assieme a fili d'erba di un'altra stagione rimasti intrappolati per sbaglio. Non ci siamo mai più voluti tornare. Troppa fatica per dover poi evitare di socializzare coi bulletti più grandi di noi.
Il silenzio allora se ne stava buono buono da parte e ci proteggeva contro quegli sconosciuti lontani. Le coperte del lettone (angolo in fondo a sinistra, davanti ad un armadio alto e bianco ed esteso, forse armadietti a ben pensarci, ma sotto la finestra con i riquadri arrotondati dalla neve e oltre neve e alberi appesantiti dal bianco) marrone terra, di lana, che pizzicano un po' e sanno di campagna ruvida, la lucetta debole, giallo arancione e il silenzio a distendersi su di me, dolce oramai, domato, a coccolare una buona notte tardo pomeridiana, come si conviene a bambini soddisfatti della giornata ben impiegata.
Era quel tempo in cui ogni mamma dormiva nella stanza con i propri cuccioli. Io facevo sogni straordinari. Poi mi svegliavo per prima perché avevo due amici di un popolo lontano che snasavano contro i vetri della finestra, rendendoli un po' opachi con il loro soffio caldo. I dziwolągi. Me lo avevano detto loro che si chiamavano così. Appartenenti alla stranezza, più o meno questo significa il nome del loro popolo. Uno marrone e uno nero, con gli occhietti lucenti e animati: i due bambini sgusciavano via dalla loro stanza e venivano ad invadere la mia, svegliando mamma, per sapere che cosa mi avessero raccontato quella mattina, e come fossero fatti i dziwolągi. Ho sempre pensato che la verità di quelle creature, nonostante i miei racconti e le descrizioni, gli sfuggisse. Anche con le mamme, avevamo analizzato tutto a tavolino: né mammuth, né yeti, né orsi o lupi; allora, cosa ? Ma come spieghi l'essenza della gattità a chi non ha mai visto un gatto? Le approssimazioni delle parole non furono mai sufficienti: e allora il gatto non esiste.

Vacanze invernali, 1992.

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