sabato 1 marzo 2014

Le cose belle non chiedono attenzione

Lo dice uno seduto (improbabilmente) da qualche parte sull'Himalaya mentre guarda un leopardo delle nevi insinuarsi tra le rocce della cresta di fronte a lui.
Mi prudono le mani, mi prudono i piedi: i muscoli entrano in tensione, come se dovessi correre, come se dovessi fare un balzo
(uno dei primi pomeriggi caldi della primavera, un compleanno in campagna, una caccia al tesoro, corriamo, salto sul pozzo, salto oltre correndo, in discesa, è quasi volare, forse da bambini potevamo)
mi riprende tutta la dromomania, il nomadismo si espande da qualche punto sotto lo sterno, mi afferra: andare, partire, non importa dove, essere nel movimento, essere movimento, energia per le strade, per i sentieri: è tutto quello che vorrei.

L'odore del pane raggiunge la stanza.
Il pane sa di casa, il topos è vero. Per fare il pane hai bisogno di una cucina, dei soldi per comprare le farine giuste, di un frigo per tenerci dentro il lievito madre. Il pane sul fuoco lo so fare, ma tra l'azzimo degli ebrei in fuga e la pagnotta alle noci che ho appena sfornato corre una distanza abissale, totale; la distanza dell'outcast e della società che ha un'identità (esclusiva).

Alla ribellione a questa scrivania, all'ombra del letto sopra la mia testa, alla serranda abbassata, all'occlusione architettonica, insomma, s'aggiunge l'angoscia per i prossimi tre mesi: io e altri (? venti? trenta?) studenti, Ska e des Esseintes, chiusi in una casa oscura (modello poi per Proust e D'Annunzio), di velluti pesanti, di ricercata fintezza, di racchiusa malattia.
"Perché temere? Il finale è molto chiaro.", dice Ska - giovedì.
"Il finale è chiaro, certo: il problema... se uno si ferma prima?", le faccio presente. Rigetta la possibilità fisicamente con la postura rigida, incassata, aggrappata ai braccioli della poltrona. Perché tanta violenza? Per la mia sciocchezza o perché sente anche lei la tentazione?
"Fermarsi prima significa morire", dice tutto d'un fiato e si rimangia il punto finale, si rimangia la senteziosità, si ammorbidisce un po'. Forse capisce qualcosa. "È una deriva letteraria, la tua. Compiaciuta. Una compiaciuta deriva letteraria" - ha visto che lo schiaffo è arrivato a palmo aperto e rincara perché la sua prospettiva è diretta al crescer(ci)(mi) critica d'arte, non "artista", e ripete insinuando una punta di non-essere-sciocca "e non va bene."

Non va bene ma bisogna sfogarlo da qualche parte, bisogna. Sarà anche l'inverno che è tornato e la pioggia, e la bici che rimane chiusa e piegata nella sua sacca e persino passeggiare è faticoso, in mezzo a tutti gli aghi che ti si piantano nelle ossa.

Victor, fammi viaggiare, andiamocene a letto insieme. Per il resto, speriamo che la fantasia, la penna e la primavera portino consiglio e luce.


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